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       Premessa 
        di 
         
        Adriana Perrotta Rabissi  
        "Care 
        amiche della redazione, ho visto che la rubrica lavoro è interessante, 
        soprattutto per il contributo del gruppo di 
        studio di Nannicini, Camussi..., dai loro interventi viene 
        fuori l'importanza del "lavoro di cura" nel determinare 
        il rapporto di noi donne, di qualunque età, con il lavoro per il 
        mercato. Ma al di là di qualche attenzione a questa dimensione, 
        non abbiamo ancora sviluppato un discorso autonomo, e non come sfondo 
        del lavoro fuori casa, sul lavoro di cura; mi sembra che i tempi siano 
        maturi, tanto più in considerazione del fatto che la destrutturazione 
        di quel poco di Welfare che abbiamo in Italia, il precarizzarsi dei lavori, 
        l'impoverimento costante delle persone appartenenti alle fasce sociali 
        medio-basse, l'invecchiamento della popolazione... e chi più ne 
        ha più ne metta, renderà sempre più attuale il tema. 
        Ho chiesto a Grazia Colombo, che si occupa da anni del tema, un 
        articolo per il nostro sito, credo che se l'intervento interesserà 
        sarà anche disposta a collaborare con noi; l'articolo è 
        in effetti un po' lungo, ma mi sembra molto chiaro nell'individuazione 
        dei termini dei problemi, anche e soprattutto per l'aspetto relazionale 
        tra chi cura e chi è curato. La mia intenzione sarebbe quella di 
        aprire un vero e proprio dibattito, con interventi di donne, resoconti 
        di esperienze (dal punto di vista della soggettività di chi cura 
        e di chi è curato/a).  
        Vi mando in allegato l'articolo di Grazia Colombo con proposta di aprire 
        un forum sul tema." 
       
        PER UNA DEFINIZIONE DEL 
        LAVORO DI CURA 
         
        di Grazia Colombo 
         
       
       
       
         
      L'interesse 
        nella società verso i temi della 'cura' sembra crescere: le previsioni 
        demografiche ci suggeriscono che sempre più elevato sarà 
        il numero dei soggetti adulti con l'attesa di 'essere curati' e, conseguentemente, 
        si presuppone che ci dovrà essere un numero crescente di persone 
        in grado di 'curare'.  
        Ma cosa significa realmente 'lavoro di cura'? E' un lavoro che esiste 
        già o che bisogna inventare? E' una caratteristica, una competenza 
        che qualche operatore possiede e qualcun'altro no? Come si insegna e come 
        si impara questo particolare contenuto di lavoro? A quali risorse umane 
        e strumentali si fa riferimento nella sua progettazione? Quali elementi 
        oggettivi e valoriali sostengono nella fatica quotidiana di un lavoro 
        che abbia in sè un elevato contenuto di cura? Quali sono i possibili 
        indicatori, individuali e di gruppo, per valutare i risultati di un tipo 
        di lavoro come quello di cura?  
        Sono domande molto attuali che si incontrano frequentando gli operatori 
        dei servizi 'alla persona' anche se ad esse si arriva solitamente dopo 
        aver un po' scavato dietro lo schermo riparatore di dimensioni come quella 
        tecnologica, scientifica e professionale in senso stretto, secondo i contesti. 
        Le educatrici dei nidi, gli infermieri, i medici, gli educatori di comunità, 
        per citare alcune professioni, non definiscono volentieri la loro attività 
        nei termini di un lavoro di cura, come se ciò fosse evocativo di 
        una sorta di svalorizzazione delle loro specifiche competenze professionali. 
         
        Ad esempio, nell'ambito dell'ostetricia e della neonatologia - branche 
        della medicina che si occupano di eventi sostanzialmente fisiologici, 
        come il partorire un figlio per una donna e il venire al mondo e l'adattarsi 
        a questo nuovo stato per il bambino - la tendenza è quella di ridefinire 
        in senso terapeutico ogni procedura messa in atto da medici, infermieri 
        e ostetriche: l'allattamento come prescrizione quantitativa e temporale; 
        l'igiene del corpo come terapia con dosi prescritte di prodotti specifici, 
        e così via.  
        Il dibattito più recente sta mettendo in luce come la dimensione 
        del curare, in medicina, non si risolva unicamente in quella del guarire: 
        si tende ad affermare che vi è un contenuto di cura sia nell'applicare 
        una flebo che nel seguire da vicino con un atteggiamento interattivo la 
        donna nel corso del suo travaglio fisiologico, senza che sia considerato 
        'lavoro' il primo e 'far niente' il secondo. Così come è 
        cura per il bambino prematuro ricevere uno specifico alimento sotto forma 
        di terapia, quanto il ricevere carezze o essere alleviato nel dolore procurato 
        da determinati necessari interventi. Vi è un orientamento dell'OMS 
        a passare, nei luoghi di produzione per la salute, 'dalla cure alla care' 
        intendendo con ciò l'evoluzione del passaggio dalla cura della 
        malattia al prendersi cura della persona che ha problemi di salute. L'argomento 
        della care appare sempre più frequentemente fra quelli trattati 
        in convegni medici.  
        Rispetto all'utilizzo del termine inglese, si possono fare più 
        ipotesi: si può intendere che il significato del termine care sia 
        maggiormente estensivo nel senso di 'prendersi cura di', rispetto all'equivalente 
        italiano di 'cura'. D'altra parte però è noto che il nostro 
        termine 'cura' ha diversi significati e almeno due paradigmi di riferimento: 
        uno più specificamente medico-terapeutico e l'altro più 
        familiare-sociale. Forse l'ambiente medico non può ancora, con 
        una parola sola, esprimere due contemporanei significati di cui il primo 
        ha uno statuto forte, legittimato dalla cultura medica, e l'altro uno 
        statuto debole, quello svalutato del lavoro familiare di riproduzione. 
        Un altro esempio, relativo a situazioni in cui sembra difficile riconoscere 
        che si sta svolgendo un lavoro di cura, è riferito alle educatrici 
        dei nidi e agli educatori professionali di comunità o di servizi 
        per persone con handicap o con problemi psichici. Nei resoconti delle 
        loro attività le prime si soffermano sulla descrizione di attività 
        specifiche cui riconoscono contenuti e finalità per lo sviluppo 
        cognitivo, intellettivo e creativo dei bambini del nido. Gli educatori, 
        descrivendo i loro processi operativi - ciò che fanno con gli ospiti 
        dei loro servizi -, si soffermano prevalentemente sulle attività 
        cui attribuiscono contenuti e finalità ludiche, ricreative e motorie. 
        Nel complesso questi resoconti tendono a censurare, o a nominare come 
        un fastidio piuttosto che come un'attività utile al raggiungimento 
        del benessere della persona di cui si prendono cura, tutte le attività 
        riferite al vivere quotidiano: come ci si veste, come si mangia e come 
        si fa a far da mangiare, come ci si tiene puliti e così via (v. 
        Canevaro). Le educatrici dei nidi, per riferire di quanta svalorizzazione 
        sociale sia circondato il loro lavoro, usano spesso questa frase: 'ci 
        trattano come quelle che puliscono il sedere ai bambini' partecipando 
        con ciò attivamente alla medesima svalorizzazione, come se non 
        fosse di primaria importanza contribuire a che un bambino impari, con 
        le cure appropriate, a diventare capace di 'aiutarsi da sè' anche 
        in questa sfera personale.  
      Cosa 
        si intende dunque per 'lavoro di cura'? 
        E' un lavoro che produce cura, che è imperniato nei gesti e nella 
        necessità della quotidiana riproduzione e che si svolge prevalentemente 
        nei servizi, ma anche in altri contesti produttivi destinati 'alla persona'. 
        E' un lavoro che richiede un alto contenuto di relazione, destinato ad 
        una persona e finalizzato al suo benessere complessivo; è un lavoro 
        che necessita dell'interdipendenza dei soggetti in relazione e contemporaneamente, 
        da parte di chi lo svolge, di conoscerne e valutarne i confini, evitando 
        l'aiuto inutile. 
        E' un lavoro che conosciamo in quanto incorporato in tutta quella serie 
        di attività diomestiche che le donne hanno storicamente compiuto 
        per i loro familiari. 
        E' un lavoro presente e incorporato in una serie di attività professionali 
        più ampie e più precisamente definite, ad esempio, come 
        lavoro sociale, educativo, intervento sanitario e di riabilitazione. 
        E' un lavoro incorporato in diverse professioni, ma costituito da alcune 
        dimensioni che contribuiscono a definirlo in sè: 
        · una dimensione fisica e materiale: è un lavoro pratico 
        e concreto che si svolge faccia-faccia con la persona di cui ci si occupa, 
        con il suo corpo, con le parti e con le funzioni più intime del 
        suo corpo; 
        · una dimensione organizzativa: è un lavoro che richiede 
        lo svolgimento di determinate sequenze che riguardano la persona e l'ambiente 
        in cui vive o che la ospita, all'interno di un progetto che coinvolge 
        altre persone con ruoli e funzioni differenti, teso a determinate finalità 
        e poggiante su determinati valori; progetto che richiede una valutazione 
        sottile dei risultati in termini di gradimento, di benessere e di eventuale 
        miglioramento delle condizioni della persona con cui si lavora; 
        · una dimensione emotiva: riferita non unicamente al fatto che 
        questo tipo di lavoro veicola emozioni, bensì a quella che potremmo 
        definire come dimensione gestionale delle emozioni. Chi svolge questo 
        tipo di lavoro non solo affronta la necessità di dover tenere sotto 
        controllo l'eccessiva esposizione alle emozioni e, contemporaneamente, 
        continuare 'a sentire', ma è impegnato in una sorta di produzione 
        sociale emozionale, cioè nella produzione di una modalità 
        di relazione di cura legittimata socialmente e che sia non distante/non 
        intima, non asettica/non coinvolgente, non estranea/non personale. 
      'Lavoro di 
        cura' e 'curare' sono dunque termini evocativi di molteplici significati 
        e di molteplici azioni. Il tentativo che vorrei fare consiste nel mettere 
        in luce gli elementi che stanno all'origine di ciò che si intende 
        comunemente come 'cura' e 'lavoro di cura', per poi comprenderne i vari 
        significati e le problematiche del costituirsi, della cura, in una dimensione 
        professionale specificamente definita e retribuita.  
        E' utile decostruire questi termini - proprio nel senso di smontare per 
        vedere meglio cosa c'è dentro - per portare alla luce diversi elementi 
        che, benchè noti nella loro parzialità, costituiscono nel 
        loro insieme un particolare meccanismo produttivo non sempre sufficientemente 
        noto, apprezzato, considerato, valorizzato. Il lavoro di cura sembra infatti 
        un lavoro trasparente: sembra di non poterne valutare la consistenza, 
        la qualità, la fatica, la resa. Sembra visibile solo constatando 
        i danni della sua assenza, piuttosto che i vantaggi del suo usufruirne. 
        Tutto ciò sembra che diventi noto solo 'dopo', quando i danni della 
        'carenza di cure' sono già presenti, oppure quando le persone che 
        continuamente svolgono questo lavoro si stufano o non ne possono più 
        di farlo e se ne vanno o si sottraggono. 
        La definizione del 'lavoro di cura' è problematica poichè 
        non solo il concetto di cura è evocativo di complessi significati, 
        densi di valori e simboli, ma anche perchè è riferito ad 
        una molteplicità di azioni e di conoscenze destinate a favorire 
        il sostegno, l'aiuto, l'accompagnamento di persone in una fase di crescita 
        o di persone divenute fragili nel corpo e nelle relazioni con gli altri, 
        o temporaneamente limitate nella loro autonoma e indipendente vita quotidiana. 
        (F. Saillant 1993; Taccani 1994) 
      Un lavoro 
        di genere femminile 
        Curare 
        è, nell'immaginario collettivo, caratteristica del femminile, pur 
        essendo il lavoro di cura svolto anche da uomini. 
        Le donne sono gli attori privilegiati dello scenario della cura: garantiscono 
        cura gratuita nel loro tempo privato familiare; svolgono lavoro di cura 
        nei servizi nel loro tempo pubblico retribuito; chiedono servizi di cura 
        per i loro familiari. 
      Donne 
        e cura nella nostra cultura 
        Come si intrecciano questi elementi nella realtà quotidiana nei 
        servizi che producono lavoro di cura? In questo senso mi sembra significativo 
        seguire da vicino il 'caso donna' come emblematico - pur dando per scontate 
        le criticità insite in ogni generalizzazione - poichè consente 
        di capire alcuni passaggi e nessi fondamentali del posto che occupa la 
        cura nella nostra cultura e nella nostra organizzazione sociale e di prefigurarne 
        gli sviluppi. 
        Le donne intraprendono lavori di cura e cicli di studi che preparano a 
        professioni ad alto contenuto di cura, con l'aspettativa di 'fare' qualcosa 
        di vicino al loro sapere, aggirando così la difficoltà di 
        misurarsi con altre attività immaginate fuori dalla loro portata. 
        Si lasciano condurre dalla presunta facilità di ciò che 
        è sentito come vicino e concreto: ciò che 'piace', ciò 
        per cui 'sono portate', ossia occuparsi degli altri, curarsi di qualcuno. 
        Le capacità che vengono alle donne riconosciute dagli altri, quelle 
        stesse che esse si autoriconoscono e che talvolta hanno già sperimentato 
        nel loro ambito familiare, possono allora costituirsi in una dimensione 
        professionale, in un lavoro. Curare diventa lavoro retribuito. 
        Si ritrovano in tante, spesso solo donne, operatrici in servizi alla persona: 
        ambiti di lavoro in cui i livelli salariali sono i più bassi fra 
        quelli dei diversi settori lavorativi e in cui la prevalente 'convenienza' 
        - per chi lavora nel settore pubblico - è di vedersi riconoscere 
        diritti, peraltro esigibili per legge, riguardanti il proprio tempo-maternità 
        (1). 
        Ambiti di lavoro in cui la scarsità di opportunità di carriera 
        ed il blocco dei passaggi di livello nei corso degli anni allunga enormemente 
        il tempo dedicato ad un solo tipo di lavoro e per lo più ripetitivo, 
        in cui è negata l'opportunità di utilizzare il tempo di 
        vita lavorativo per riciclare sapienza e competenza e per diventare maestre 
        nei lavori di cura.  
        Ambiti di lavoro i cui vantaggi sono insiti nel fatto che si tratta di 
        lavori e di ambienti meno ostili alla cultura lavorativa delle donne e 
        alle loro esigenze/desideri di tenere insieme il tempo familiare e quello 
        lavorativo.  
        Ambiti di lavoro in cui le donne, temendo il rischio di portare nella 
        dimensione professionale il non-valore e la non-visibilità socialmente 
        destinata a tutto ciò che riguarda la cura nell'ambito familiare, 
        si rifugiano spesso nel tecnicismo o nella distanza dalla persona di cui 
        si prendono cura, come se la distanza fosse di per sè misura della 
        professionalità (Colombo, 1989). 
        Ambiti di lavoro in cui sono compresenti culture professionali e modalità 
        organizzative differenti e spesso in conflitto fra loro, verso le quali 
        il movimento meno costoso può essere quello dell'omologazione al 
        modello prevalente. 
        Le istituzioni che gestiscono servizi alla persona non sembrano ancora 
        interessate a indagare e decifrare la complessità insita in questi 
        tipi di lavori, dei quali raramente vengono esplicitati i risultati che 
        ci si attende, come se si trattasse di processi produttivi naturali. Si 
        assiste a situazioni in cui da un lato vengono premiati modelli organizzativi 
        che privilegiano la 'tecnologia' come ambito di presunta maggiore efficacia, 
        mentre dall'altro la latitanza di proposte organizzative è tale 
        da produrre comportamenti lavorativi di una modalità routinaria 
        e spersonalizzante più prossimi all'incuria che alla cura. 
      La collusione 
        delle donne 
        Facevo 
        prima riferimento a resoconti di segmenti di attività produttiva. 
        L'analisi di questi materiali - personalmente condotta in vari servizi 
        come consultori, reparti ospedalieri, nidi d'infanzia, servizi per disabili 
        - rivela che vengono descritte, rendicontate e quindi percepite come attività 
        lavorative solo determinate azioni, procedure, 'cose che si fanno', e 
        non altre. Vengono generalmente censurate alcune parti - evidentemente 
        sentite come non-lavoro - corrispondenti ai gesti e alle situazioni in 
        cui vi è una particolare sintonia relazionale con la persona di 
        cui ci si sta occupando, i gesti e le situazioni in cui 'ci si sente bene' 
        o 'ci si diverte'; i momenti in cui la dimensione di ascolto è 
        più elevata e i gesti che riportano alle abitudini della vita quotidiana. 
        Usando una certa approssimazione, potrei dire che vengono censurate tutte 
        quelle parti valorizzabili come positive in un lavoro di cura e maggiormente 
        riportabili a competenze di tipo femminile, come: la capacità di 
        inventare soluzioni di fronte ad una contingenza inattesa; l'orientamento 
        alla relazione; l'attenzione alle difficoltà delle persone; la 
        capacità di cogliere i segnali informali delle situazioni per farle 
        evolvere positivamente per chi vi partecipa; la capacità di occuparsi 
        con competenza dei bisogni primari delle persone. 
        L'analisi di questi comportamenti è di grande interesse per potere 
        affrontare determinati interrogativi. Uno di questi consiste nell'intravedere 
        una sorta di collusione da parte delle donne perchè esse sembrerebbero 
        attivamente partecipi della negazione di tali attitudini e competenze, 
        riconosciute come femminili ma bollate dall'organizzazione come sottoprodotto. 
        Da quali elementi può essere prodotta una tale attitudine? Vi è 
        sicuramente un'attesa sociale che siano le donne in particolare a svolgere 
        bene lavori di cura (quante volte fra gli utenti o i familiari di utenti 
        insoddisfatti si sente dire: "e sì che è una donna!"). 
        E' però difficile che esse possano assumersi interamente e consapevolmente 
        la rivalutazione delle modalità del lavoro di cura avendo introiettato 
        la svalutazione sociale delle competenze femminili relazionali e di cura; 
        l'incertezza su quanto si conta; affidarsi ad altri per il giudizio su 
        di sè.  
        Tale rivalutazione è un'operazione che richiede di riconoscersi 
        autorevolezza nell'accoglimento e nella relazione con l'altro-altra non 
        nei termini del potere discrezionale fornito dall'istituzione che si rappresenta, 
        bensì nei termini di autoriconoscersi la dimensione di 'soggetto' 
        - abbandonando lo stato di 'oggetto' - per attribuire la stessa dimensione 
        di 'soggetto' alla persona di cui ci si prende cura (M.Piazza 1992). Curare 
        qualcuno e curarsi di qualcuno non indica solo il transitivo e intransitivo 
        del verbo, ma anche, nella seconda versione, un'autorizzazione a curare 
        se stesse. E questo è un passaggio rilevante del costituirsi del 
        lavoro di cura in dimensione professionale. E' un passaggio che richiede 
        alle donne di potersi riconoscere simbolicamente e realmente maestria 
        nel lavoro di cura e di potersi immaginare non solo come curanti, ma anche 
        come destinatarie di cure, e che richiede alla cultura sociale di dotarsi 
        di nuovi criteri di valutazione di un lavoro tanto necessario in quanto 
        vicino alle esigenze vitali delle persone. 
      Esplorazione 
        del mondo della cura 
        Questo 
        schema di analisi ci fornisce alcuni elementi di chiarezza ma anche molteplici 
        interrogativi su cui si sente la necessità di confronto anche a 
        partire da riflessioni su esperienze operative. Ad esempio: se è 
        un lavoro al femminile, gli uomini ne sono esclusi? Lo intraprendono con 
        modalità diverse? La cura è una presa di responsabilità 
        fra persone o/e vi è una dimensione di responsabilità sociale? 
        La produzione di ricerca su questo tema si è svolta finora prevalentemente 
        attraverso l'interesse di studiose, sociologhe, storiche, antropologhe, 
        e nel filone di studi femministi (2). 
        Carol Thomas (1993) sostiene che 'cura' è una categoria empirica 
        e non teorica e che le forme di cura e le relazioni fra le stesse siano 
        da teorizzare nei termini e all'interno di altre categorie teoriche. Suggerisce 
        inoltre sette dimensioni comuni a tutti i concetti di cura: 
        · l'identità sociale di chi cura 
        · l'identità sociale di chi riceve cure 
        · la relazione interpersonale fra chi cura e chi riceve cure 
        · la natura della cura 
        · l'ambito sociale in cui è collocata la relazione di cura 
        · il carattere economico della relazione di cura 
        · il luogo della cura 
        Considero utile questo schema per addentrarmi nella scomposizione del 
        concetto di cura, avendo come prospettiva quella di comprendere meglio 
        i passaggi fra la presunta naturalità del lavoro di cura svolto 
        tradizionalmente dalle donne e la sua costituzione in dimensione professionale, 
        cioè in lavoro di cura svolto da donne e da uomini all'interno 
        di professioni, in ruoli e in contesti produttivi diversi. 
      L'identità 
        sociale di chi cura 
        La persona che cura è usualmente definita in riferimento al ruolo: 
        familiare (ad esempio, moglie, madre, figlia) o professionale (ad esempio, 
        domestica, infermiera) o specifico (ad esempio volontaria). L'evocazione 
        è genericamente e usualmente al femminile tanto che si può 
        affermare che il genere è costitutivo dell'identità sociale 
        di chi cura. La cura è femminile. E ciò non solo perchè 
        sono donne le persone che garantiscono cura nell'ambito della famiglia 
        e perchè sono prevalentemente donne coloro che svolgono lavori 
        di cura nei servizi. Si tratta bensì del fatto che il dare cura 
        è parte della costruzione sociale dell'identità femminile. 
        L'identità di ciascuno riassume le esperienze passate, il nucleo 
        profondo delle esperienze infantili, e la progettualità futura 
        in quanto dimensione soggettiva all'interno di una cornice sociale e culturale 
        che offre determinati modelli di comportamento, a donne e a uomini. Sia 
        il maschio che la femmina hanno come primo oggetto d'amore una donna, 
        ma il bambino si deve staccare da lei per identificarsi con il sesso d'appartenenza 
        e la sua identità si costruisce attraverso l'esperienza di separazione 
        dalla madre, la valorizzazione della presa di distanza e dell'autonomia. 
        La bambina prolunga l'identificazione con la madre, non c'è opposizione 
        fra sè e l'altra e l'identità si costruisce sulla valorizzazione 
        della vicinanza piuttosto che della separazione, dell'oblatività 
        e del bisogno dell'altro. Le donne si immaginano prima o poi nella posizione 
        di chi cura, piuttosto che come persone potenzialmente bisognose di cure 
        fisiche (Griffits, 1988). 
        Il lavoro di cura appare, nella nostra cultura e nella nostra società, 
        come un'espressione del femminile. Ciò ovviamente non esclude che 
        il lavoro di cura sia svolto da uomini, in ruoli familiari nell'ambito 
        domestico e da operatori nei servizi. Nominare il genere di chi cura - 
        uomo o donna nella famiglia, operatore o operatrice nei servizi - contribuirebbe 
        sia all'esplicitazione delle differenze nel modo di curare senza che ciò 
        possa essere sentito(come spesso accade alle donne nella dimensione professionale) 
        come una minaccia all'eguaglianza di diritto fra i sessi e contribuirebbe 
        anche al chiarimento di ciò che si può o si deve intendere 
        per 'diritti di chi cura (3), nozione oggi compressa fra gli estremi di 
        una dimensione o tutta amorevole e di obbligo, nella relazione familiare, 
        o di rivendicazione di condizioni materiali di lavoro, nelle relazioni 
        produttive. 
      L'identità 
        sociale di chi riceve cure 
        Chi riceve cure è generalmente definito come membro di una determinata 
        categoria sociale, che può essere riferita ad esempio all'età, 
        come i bambini e gli anziani, o ai familiari. Chi riceve cura è 
        spesso definito nei termini di appartenente ad una categoria di persone 
        in una posizione di dipendenza, come anziani non-autosufficienti, persone 
        con difficoltà di apprendimento o con malattie croniche. Così 
        la chiave di identificazione sociale di chi riceve cure è nei termini 
        di status di dipendenza. Tuttavia chi riceve cure nella famiglia è 
        in genere un adulto autosufficiente o un bambino con la non autosufficienza 
        fisiologica rispetto al livello di crescita (4).  
        Chi riceve cura esibisce la dimensione del bisogno ed anche quella del 
        diritto di cittadinanza: dimensioni entrambe caratterizzate da forti mutamenti 
        di tipo valoriale nel corso degli ultimi decenni. Si tratta di un mix 
        che da un lato ridisegna la collocazione del posto della donna nelle dinamiche 
        familiari, dall'altro ridefinisce la relazione fra chi dà e chi 
        riceve cura nei luoghi istituzionali, in quanto chi porta un bisogno non 
        è più un questuante proprio in forza del suo diritto di 
        cittadinanza. Ma anche chi dà cure pone limiti precisi alla propria 
        disponibilità, in forza dei diritti del lavoro. Esibire il diritto 
        a ricevere cure scioglie il debito di gratitudine gratitudine nei confronti 
        della madre simbolica, cioè il/la curante, distanziandosene (gli 
        operatori descrivono questo movimento dei loro utenti/clienti come fonte 
        di tensione perchè denso di pretesa e di aggressività). 
      La relazione 
        fra chi cura e chi riceve cure 
        E' una relazione definita, e in un certo senso accettabile, prevalentemente 
        all'interno di un vincolo: quello familiare oppure quello lavorativo per 
        quanto riguarda i servizi, anche se si prospettano ulteriori dimensioni. 
        Se il fondamento della relazione interpersonale nell'ambito della famiglia 
        è quello dell'amore, non sfugge tuttavia quello dell'obbligo, pur 
        in termini diversi dall'obbligo al rispetto di norme insito nel rapporto 
        istituzionale di lavoro di cura. In quest'ultimo ambito il tipo di relazione 
        è determinato anche dal grado di investimento e dalle prefigurazioni 
        del singolo operatore rispetto alla propria attività, nonchè 
        dalla cultura organizzativa del luogo istituzionale in cui la relazione 
        avviene. 
        Tenendo conto delle osservazioni che portavo nel punto precedente, credo 
        si possa affermare che forse mancano ancora dei criteri, condivisibili 
        dai soggetti in interazione, per contrattare una modalità di rapporto 
        sufficientemente chiara e rispettosa delle attese di ciascuno. In altri 
        termini, è come se si dovesse ancora mettere a punto una modalità 
        relazionale entro cui si possa esprimere fiducia e affidamento, da parte 
        di chi riceve cure, e contemporaneamente personalizzazione e misura del 
        coinvolgimento, da parte di chi dà cure, in un tempo che spesso 
        ha un inizio improvviso e una durata comunque breve (ho in mente il senso 
        di delusione espresso da diverse educatrici di nido quando affermano che 
        "i nostri bambini poi non si ricordano più neanche di noi, 
        con tutto quello che abbiamo fatto"). 
        Ulteriori relazioni interpersonali possono essere fondate sull'amicizia 
        o sul "vicinato" oppure riguardare persone fra loro sconosciute 
        in contatto per una determinata finalità attraverso una prestazione 
        volontaria. E' ancora poco diffuso un tipo di relazione fondata sullo 
        scambio di cure in una posizione paritaria fra persone adulte che possono 
        considerarsi contemporaneamente in grado di dare cura e di riceverne, 
        all'interno di un legame sociale che non sia parentale o a pagamento (Colombo 
        1991, 1996). Anche la stessa categoria della cura come dono, come valore 
        etico di gratuità, sembrerebbe presupporre una relazione fondata 
        sulla disponibilità a donare ma anche sull'attesa di essere destinatari 
        di doni (Bimbi, 1995). 
        Tutto ciò comporta che tipi di relazioni di cura differenti possono 
        essere compresenti in un reticolo destinato ad un unico soggetto: ad esempio, 
        un bambino può ricevere cure, che presuppongono relazioni differenti, 
        dalla madre, dall'educatrice al nido, dalla baby- sitter in casa o da 
        una vicina nella sua propria casa. 
      I contenuti 
        della cura 
        La difficoltà di questa definizione risiede nel duplice significato 
        insito sia nel sostantivo cura sia nel verbo curare. Significato riferibile 
        alla relazione che si instaura fra i soggetti, nel senso di 'rendersi 
        cura' di qualcuno, o riferibile all'attività di curare, ai processi 
        operativi, nel senso di 'badare', 'sorvegliare', 'assistere', 'curare 
        terapeuticamente' qualcuno. Questi significati evocano a loro volta due 
        dimensioni del lavoro di cura, inscindibili nell'esperienza della cura: 
        · la dimensione materiale: curare è un lavoro, un lavoro 
        costituito da azioni e compiti precisi, che occorre saper fare 
        · la dimensione emotiva: curare è un evento emotivo che 
        ha a che fare con i sentimenti, con l'amore e l'affetto, e con il garantire 
        supporto emotivo.  
        Conosciamo i rischi insiti nel tenere insieme le due dimensioni nell'ambito 
        dell'attività professionale (eccessiva identificazione con la persona 
        di cui ci si prende cura, forte attesa di riconoscimento affettivo dalla 
        stessa, difficoltà a smettere di 'sentirsi sul lavoro'). Rischi 
        che mettono a dura prova l'equilibrio psicofisico dei soggetti che svolgono 
        un lavoro di cura e che si palesano spesso con un consumo eccessivo delle 
        proprie risorse. 
        Nell'ambito dello stesso lavoro di cura all'interno della famiglia si 
        possono identificare dimensioni differenti: lavoro domestico, cioè 
        le mansioni ripetitive del tenere in ordine la casa; lavoro di consumo, 
        cioè l'aver a che fare con negozi e con servizi vari; e lavoro 
        di rapporto, in un certo senso garantire i legami familiari (5). I contenuti 
        della cura non sono dunque riferiti solo alla dimensione emotiva o a quella 
        materiale, poichè vi è compresenza di questi elementi e 
        ciò che appare, secondo i diversi contesti, è semmai una 
        prevalenza di uno dei due elementi. E' infatti chiaro che da un lato il 
        lavoro di cura in ambito familiare non è solo una veicolazione 
        d'amore, ma un vero e materiale lavoro, così come il lavoro di 
        cura nei servizi non è solo materiale attività in senso 
        di prestazioni, ma è anche vicinanza emotiva.  
        Non sembra una sintesi forzata affermare che i contenuti della cura è 
        data da contemporanee dimensioni che riguardano il sentire, il sapere, 
        il fare e che tuttavia il lavoro di cura professionale non implica necessariamente 
        una presa in carico globale. 
      L'ambito 
        sociale in cui è collocata la relazione di cura 
        Questa dimensione riguarda la separazione più netta e vistosa nella 
        divisione del lavoro nella società complessa: fra la sfera pubblica 
        e quella privata o domestica, da cui derivano le concezioni di lavoro 
        di produzione nell'ambito del pubblico o del mercato, e di lavoro di riproduzione 
        nell'ambito domestico (quel lavoro quotidiano svolto nell'ambito della 
        famiglia per rispondere a quei bisogni fisici ed affettivi degli adulti 
        per vivere giorno-dopo-giorno e a quelli dei bambini per crescere). 
        L'economia politica tradizionale ha dato, e tuttora tende a dare, al lavoro 
        svolto dalle donne nella sfera domestica la definizione di "improduttivo" 
        (rispetto a quello "produttivo" per il mercato). Le ricerche 
        e le analisi svolte negli anni '70 e '80 sulle caratteristiche e la natura 
        del lavoro domestico delle donne ne hanno messo in luce le diverse dimensioni 
        e hanno ampliato il concetto di produzione, chiarendo la funzione decisiva 
        della produzione di rapporti sociali e di prodotti immateriali. Vi è 
        anche l'analisi e la valorizzazione di un modo di produzione che costituisce 
        un patrimonio di esperienze accumulate ed elaborate dalle donne attraverso 
        i loro compiti di gestione della sopravvivenza (riguardo la salute, il 
        cibo, l'abitazione, i rapporti). "Si tratta di capacità e 
        abilità di diverso tipo, via via modificate e adattate a seconda 
        delle risorse esistenti e delle esigenze dello sviluppo sociale - e non 
        certamente trasmesse in modo meccanico, sempre identiche, di generazione 
        in generazione" (Prokop, 1978). 
        La collocazione della relazione di cura in uno dei due ambiti caratterizza 
        in modo differente i concetti di cura. Nell'ambito domestico ('informale' 
        nella terminologia anglosassone, 'ambiente naturale', riprendendo Ardigò) 
        i soggetti che svolgono un lavoro di cura, anche se pagati, utilizzano 
        la prevalenza affettiva nella relazione mentre i soggetti che svolgono 
        un lavoro di cura nell'ambito dei servizi ('istituzionale' o 'ambiente 
        artificiale'), pur svolgendo compiti analoghi, utilizzano nella relazione 
        la prevalenza dell'attività (6). 
      Il carattere 
        economico della relazione di cura 
        Questa dimensione è relativa all'essere il lavoro di cura retribuito 
        o non retribuito; al prestare cure in una dimensione governata da un obbligo 
        proveniente da un legame, familiare o di altro tipo, oppure proveniente 
        da un pagamento in denaro. Tuttavia non si tratta solo di gratuità 
        o di pagamento, visto che, come già detto a proposito della dimensione 
        relativa alla relazione, il lavoro di cura che si svolge nella sfera domestica 
        non è esclusivamente gratuito (come nel caso della collaboratrice 
        domestica, della baby- sitter) e quello che si svolge nella sfera pubblica 
        non è esclusivamente pagato (come nel caso di persone volontarie 
        per particolari prestazioni e situazioni).  
        Se ci si attiene rigidamente e unicamente alla categoria del gratuito 
        o del pagato si rischia di non vedere l'articolazione intrinseca nel lavoro 
        di cura rispetto all'ambito in cui viene prestato e ai suoi contenuti, 
        nonchè di perdere elementi utili a comprendere come l'attitudine 
        alla cura si costituisca in attività professionale. Vi è 
        un dibattito aperto relativamente all'attribuire un valore economico, 
        e quindi un suo riconoscimento tangibile e materiale a livello sociale, 
        al lavoro di cura svolto dalla donne nell'ambito domestico. Così 
        come una buona parte della contrattazione dei rapporti di lavoro nell'ambito 
        dei servizi ruota intorno ad un interrogativo che, pur non così 
        esplicito, riguarda:" che cosa vendono gli operatori che fanno un 
        lavoro di cura e che cosa acquista l'organizzazione dei servizi contrattando 
        un prezzo e delle condizioni di lavoro degli operatori?" (come non 
        aver presente gli estremi di questo dibattito, sintetizzabile con posizioni 
        come: "non vendiamo i nostri sorrisi e la nostra affettività: 
        lavoro è lavoro e basta!").  
        E' un dibattito, lungo già qualche decennio, iniziato nel momento 
        in cui si è affermata la dimensione di vero e proprio lavoro di 
        tutte le attività con un contenuto di cura, dibattito teso a chiarire 
        le ambiguità proprie del tenere insieme le dimensioni materiali 
        e quelle affettive in un lavoro per il mercato, da svolgersi per determinate 
        ore settimanali, con determinati periodi di riposo, con determinate retribuzioni. 
      Il luogo 
        della cura 
        Riguarda il luogo fisico in cui si svolgono le attività di cura 
        e l'immagine che se ne ha a livello sociale. Il lavoro di cura è 
        presente, come abbiamo già visto, sia nella casa sia in diversi 
        luoghi identificati come più o meno istituzionali: l'ospedale, 
        le case di cura diurne, i centri residenziali e di lungodegenza, quelli 
        territoriali di salute, e così via. Si tratta di luoghi prevalentemente 
        evocati quando si parla di cura; tuttavia è limitativo riferirsi 
        solo a questi spazi circoscritti da mura e definiti in sè. Lavoro 
        di cura, professionale o non, si compie anche all'esterno, nella città 
        in senso urbanistico e sociale più ampio: all'aperto nei parchi 
        e nelle strade, che offrono tutti gli ostacoli propri di luoghi non pensati 
        in riferimento a possibili funzioni di cura delle persone; o altri luoghi 
        come bar, alberghi, un ufficio postale o un tram in cui gli operatori 
        accompagnano persone disabili ad affrontare tappe della loro vita quotidiana. 
        Essendo la cura pensata come un'attività rinchiusa entro determinati 
        ambiti fisici riservati, questi altri luoghi mal si adattano, architettonicamente 
        e relazionalmente, a standard di funzionamento differenti da quelli previsti 
        dalla loro destinazione prevalente. 
      Una sintesi 
        a tre dimensioni 
        Sono evidenti la circolarità e le connessioni fra queste sette 
        dimensioni. Possiamo anche costruire una serie di concetti di cura combinando 
        differenti variabili di tali dimensioni.  
        In termini più sintetici vorrei mettere in luce particolarmente 
        tre dimensioni, assumibili come possibili definizioni: 
        · lavoro di cura come lavoro femminile gratuito, obbligato, per 
        amore, svolto nella casa e destinato ai membri della famiglia che ne hanno 
        bisogno. L'identità sociale di chi da cura è definita in 
        termini di genere e quella di chi riceve cure in termini sia di stato 
        di dipendenza che di autosufficienza. 
        · lavoro di cura come attività lavorativa carica delle implicazioni 
        emotive già descritte, fornita in vista di una retribuzione, prevalentemente 
        da donne ma anche da uomini, a bambini sani e ad adulti e bambini non 
        autosufficienti in una dimensione pubblica e in una varietà di 
        luoghi istituzionali. In questo caso non è il genere a definire 
        l'identità di chi svolge lavoro di cura (benchè questi tipi 
        di lavoro mantengano un'immagine ed evochino significati simbolici al 
        femminile), anche se non sembra ancora presente una curiosità a 
        decifrare le differenze nel modo di produzione di donne e di uomini, come 
        se l'uguaglianza di ruoli non concedesse l'espressione e l'esplicitazione 
        delle differenze nei processi operativi.  
        · lavoro di cura svolto prevalentemente da donne, ma anche da uomini 
        soprattutto anziani, nei termini di temporanee prestazioni o servizi gratuiti, 
        implicante vicinanza affettiva, per i parenti o persone molto prossime 
        o vicini di casa, o come attività volontaria specifica svolta in 
        luoghi differenti, per persone non autosufficienti.  
      Una lettura 
        utile ad operatrici e ad operatori 
        C'è 
        da chiedersi come i servizi si reggerebbero senza la quotidiana immissione 
        in circolo di tutta una serie di azioni, di atteggiamenti, di abitudini 
        quotidiane mutuate dall'ambito domestico, non considerate lavoro, ma sostanziali 
        ed indispensabili alla sopravvivenza di un servizio che si occupi di curare 
        le persone. 
        Contemporaneamente, l'ascolto attento di ciò che raccontano e lamentano 
        gli utenti dei servizi - ho personalmente raccolto molti di questi materiali 
        fra gli utenti dei servizi pubblici - segnala disagi, nel rapporto operatore-utente, 
        che sembrano riferibili tanto alla dimensione organizzativa quanto ai 
        contenuti attribuiti in modo differente all'attività lavorativa 
        di chi la presta e da parte di chi la riceve. E' qualcosa che ha a che 
        fare con la scarsa attenzione alla persona nel suo complesso, come se 
        il centro dell'attenzione dell'operatore stesse altrove: è l'impossibilità 
        o la difficoltà ad occuparsi dell' accoglienza e dell'accompagnamento 
        nel percorso di cura, per gli operatori; è il sentimento di impossibile 
        affidamento, da parte della persona che abbia temporalmente o stabilmente 
        difficoltà di autonomia, a una persona indicata professionalmente 
        come adeguata per assumersi tale incarico. 
      La pesantezza 
        del lavoro di cura  
        Curare è, dunque, un lavoro nè banale nè facile, 
        che non tutti sono in grado di svolgere, che forse non può durare 
        un'intera vita lavorativa perchè consuma molto. 
        Gli elementi particolarmente significativi rispetto al suo svolgersi sono 
        riferiti: 
        · all'identità dei soggetti: chi sono le persone che lavorano 
        e quelle che ricevono cure; sono donne o uomini coloro che svolgono tale 
        lavoro  
        · alle relazioni che si instaurano fra i soggetti: quale parte 
        di sè mettono in campo rispettivamente queste persone; quali differenti 
        intrecci relazionali nell'essere donne o uomini destinatari di cure e 
        nell'essere curati da un uomo o da una donna 
        · all'ambito sociale: in quale contesto tale relazione si sviluppa 
         
        · ai luoghi: essere in un luogo contrassegnato da in-curia piuttosto 
        che da cura; essere in un luogo più o meno previsto o adibito ad 
        attività di cura 
        · ai valori e ai contenuti: avere quali tipi di aspettative da 
        un lavoro socialmente privo di valore e ancora apparentemente privo di 
        sapere professionale; avere quali di tipi di motivazioni ad agire con 
        persone che, ad esempio, hanno subito una rottura simbolica oltre che 
        reale nella capacità di prendersi cura di sè, con persone 
        che sembrano 'avere bisogno di tutto'; prospettarsi attività da 
        svolgere per persone sentite come passive riceventi piuttosto che con 
        persone sentite come portatrici di determinate potenzialità; valorizzare 
        o meno le risorse esistenti nel senso di mettersi in contatto con ciò 
        che c'è piuttosto che con ciò che manca. 
      E' un 
        lavoro che richiede: 
        · conoscenza anzichè fare subito;  
        · flessibilità più che prescrizione;  
        · un orientamento contemporaneamente al contenimento e allo sviluppo; 
         
        · la messa in atto di difese dai meccanismi proiettivi e dall'identificazione, 
        ma anche dall'eccessiva differenziazione;  
        · la fatica di tradurre l'idealità di valori forti in realtà 
        di concreti obiettivi operativi. 
         
        I servizi alla persona sono un ambito in cui sarebbe possibile svolgere 
        un lavoro coinvolgente, creativo, utile. Questi termini sono spesso utilizzati 
        per definire un 'buon tipo di lavoro', magari desiderabile.  
        Che cosa non quadra? E' che tutto ciò non mostra solo l'aspetto 
        di positività. Il contenuto del lavoro di cura nei servizi ha margini 
        di discrezionalità e di flessibilità e perciò è 
        coinvolgente per le persone che lo svolgono. Forse anche troppo, perchè 
        tale lavoro è per lo più rivolto a persone che possono portare, 
        ad esempio, problemi grossi di sofferenza e di emarginazione, e grosse 
        domande di aiuto. Tutto ciò rischia di essere troppo coinvolgente 
        se le operatrici e gli operatori non percepiscono argini sufficientemente 
        forti per contenere l'ansia e la responsabilità che ne può 
        derivare. Proprio da queste necessità nascono spesso richieste, 
        e conseguenti atteggiamenti - da parte di operatrici e operatori - di 
        maggior ordine: più regole e più rigide; più distanza 
        anche fisica dagli utenti per segnare una possibile distanza dalla coinvolgente 
        ansia e sofferenza.  
        Si tratta anche di un lavoro che ha ampi margini di creatività: 
        ciascuno può mettere in gioco una parte di sè ed aggiungere 
        qualcosa alla routine lavorativa e proprio la relazione con le persone, 
        con gli utenti e fra gli operatori, consentirebbe ciò. Ma questo 
        rischia di essere percepito come un carico maggiore sulle proprie spalle, 
        come variabili faticose perchè non previste da una 'buona organizzazione', 
        dalla quale ci si aspetta che renda tutti i bisogni uguali e tutte le 
        risposte uguali. 
        Si tratta di un lavoro utile ma di cui spesso non si conosce l'esito, 
        non si sa come va a finire: come la famosa tela che si continua a tessere 
        e non si sa se diventerà mai un oggetto d'uso. Il confronto va 
        al continuo fare e disfare del lavoro domestico: lì però 
        le donne sanno che l'utilità non risiede nell'azione in sè, 
        ma nel passaggio d'amore. Come ripaga, cosa restituisce a chi lo svolge 
        nei servizi un lavoro il cui risultato non sembra misurabile e che sembra 
        consistere solo nell'averlo svolto, come se non lasciasse tracce? 
        Occorre che la consistenza operativa e organizzativa in termini progettuali 
        e di valutazione dei risultati assuma una dimensione entro cui gli operatori 
        sentano esistere effettivamente il proprio apporto professionale. Lasciare 
        che le cose vadano comporta il rischio che la distinzione fra la dimensione 
        professionale e quella domestica diventi labile, faticosa, impossibile. 
        Così il lavoro che si svolge nei servizi rischia, per le donne, 
        di assomigliare troppo alla fatica, all'impegno e alla responsabilità 
        che esse conoscono già e del cui peso vogliono liberarsi, e, per 
        gli uomini, di essere troppo banale e piatto, quindi un ripiego transitorio 
        o una tappa strumentale per un successivo incarico almeno di coordinamento. 
        Ciò accade perchè il lavoro di cura è effettivamente 
        faticoso, e anche perchè non è considerato produttivo, nè 
        prestigioso, nè di valore, pur a fronte di un persistente bisogno 
        generalizzato di essere curati, ma anche della pregnanza di trovarsi in 
        una dimensione sociale e in un tempo storico in cui si diffonde la consapevolezza 
        che ciò sia un diritto. 
      Tre aree 
        di elaborazione strategica 
        E' 
        evidente che ci troviamo di fronte ad un quadro complesso ed i tempi di 
        analisi, di comprensione e di risistemazione non possono essere brevi. 
        Si tratta di una complessità che riguarda almeno tre ordini di 
        problemi: 
        a) il sistema organizzativo dei servizi socio-sanitari-assistenziali 
        b) le operatrici e gli operatori e le loro identità soggettive 
        e lavorative 
        c) i diritti delle persone che hanno bisogno di cure 
        Non ci sono scorciatoie e occorre chiedere e darsi il tempo per analizzare, 
        per riflettere, per elaborare strategie adatte al superamento di quelle 
        che oggi vediamo come contraddizioni, incongruenze, fatiche ed incomprensioni. 
      Il sistema 
        organizzativo dei servizi socio-sanitari-assistenziali 
        Le professioni fondate sulla relazione fra i soggetti sono emotivamente 
        stressanti e pesanti, hanno bisogno di sostegno e di presa di distanza. 
        La dimensione organizzativa e tecnologica nei lavori di cura dovrebbe 
        garantire questo tipo di sostegno. Evitare di mettere a punto queste dimensioni, 
        lasciandole alla libera iniziativa del singolo operatore, fa sì 
        che la presa di distanza si realizzi rifuggendo, ad esempio, da ogni compito 
        che abbia un elevato contenuto di relazione, preferendo compiti meramente 
        pratici, esecutivi e lontani dalla persona. Per dimensione tecnologica 
        si intende incrementare tutto ciò che serve a far bene un certo 
        compito o una certa procedura; riportare ogni attività all'interno 
        di un disegno programmato e non inventato giorno per giorno; possedere 
        criteri adeguati ad esercitare e far esercitare un controllo di qualità 
        sul proprio lavoro, ed anche criteri adeguati a riconoscere e analizzare 
        i rischi fisici e psichici insiti nella propria attività lavorativa 
        e indicare strategie di prevenzione. 
      Le operatrici 
        e gli operatori e le loro identità soggettive e lavorative 
        Professionalizzare il lavoro di cura significa chiarirne i legami con 
        l'area del lavoro di riproduzione -legami differenti per gli uomini e 
        per le donne - per contribuire a definirne i contenuti professionali e 
        il valore economico da attribuirvi, entro un determinato contesto fisico 
        e relazionale. Avvicinarsi a ciò chiede alle organizzazioni di 
        investire in processi formativi e di conoscenza degli operatori per superare 
        la codificazione data e scontata delle azioni e dei risultati del lavoro, 
        nominando e rinominando tutto ciò che si fa ed i relativi significati 
        e motivazioni in quel contesto, così come chiede di promuovere 
        il concorso di più discipline ed ambiti di esperienza nella lettura 
        del proprio contesto operativo, distinguendone le specificità per 
        intraprendere percorsi autovalorizzanti e insieme integrativi. 
      I diritti 
        delle persone. 
        E' tempo ormai che si assumano e si rendano visibili dati precisi derivanti 
        dall'esperienza di essere soggetti nella posizione di attendersi cura: 
        è inevitabile che questa posizione, quella di utenti/clienti, sia 
        attivamente una delle tre, se nominiamo l'organizzazione e gli operatori. 
        Il rischio è che le posizioni si confrontino in contrapposizione 
        e con l'unica carta della rivendicazione. Anche se è inevitabile 
        che vi sia una quota di conflitto di interessi fra le tre posizioni, tuttavia 
        è possibile che vi siano spazi di sviluppo comune. Ad esempio, 
        è possibile per gli operatori stessi che svolgono lavoro di cura 
        incrementare le funzioni dell'ascolto e del dire insieme, anzichè 
        contribuire al silenzio di chi è curato attraverso l'assunzione 
        di una delega piena, legittimata da un'invadente oblatività o dalla 
        percezione di un maggior sapere. Il risultato di tale operazione può 
        essere non solo garantire i diritti, ma anche vedere insieme i limiti 
        di pretese onnipotenti, contribuendo a dare nuova dignità non solo 
        a chi riceve cura, ma anche a chi lavora per garantirla (7). 
        Se tutto ciò è utile in un momento in cui si registra la 
        crescita dei diritti e il potenziamento dei servizi, è addirittura 
        indispensabile in un momento in cui l'investimento pubblico sembra appannarsi 
        nei valori e nelle responsabilità, in un momento in cui il rischio 
        è di tornare a considerare il servizio, e in esso il lavoro di 
        cura, un'elargizione a chi non ha o non può e, per gli operatori, 
        di finire in un'identificazione di ultimi fra i lavoratori. 
        Il lavoro di cura nell'esperienza quotidiana, sia nella dimensione informale 
        che in quella istituzionale, è strettamente legato e si configura 
        e avviene attraverso processi differenti secondo la storia, la cultura, 
        il contesto sociale, la situazione economica. Sono quindi rilevanti tanto 
        i fattori strutturali quanto quelli relazionali, tanto i modi di sentire 
        quanto le motivazioni e le responsabilità. Non è banale 
        affermare, ad esempio, che le cure alle persone anziane possono essere 
        differenti a seconda della considerazione che degli anziani si ha in una 
        data cultura, a seconda degli investimenti economici che le decisioni 
        politiche vi assegnano, a seconda di quanto quel contesto sociale ritiene 
        prezioso il contributo di cura di persone professionali o no. L'ago della 
        bilancia è dunque spostabile: le responsabilità sono multiple 
        e di gradazione differente. 
      
       
         
        NOTE 
      (1) Un'altra 
        'convenienza', praticabile fino a qualche tempo fa, era di poter uscire 
        il più presto possibile dal ciclo produttivo con una baby-pensione, 
        spesso per occuparsi a tempo pieno del lavoro di cura domestico. Si trattava 
        di un meccanismo che, in un certo senso, risolveva una quota del problema 
        del burn-out, accorciando la durata della vita lavorativa. La necessità 
        di rimanere in servizio più a lungo, porrà con maggiore 
        forza l'esigenza di prevedere cicli lavorativi in cui l'esposizione costante 
        alla relazione 'operatore-utente' non duri trentacinque anni. 
      (2) Le studiose 
        del GRIFF di Milano hanno sviluppato analisi e portato contributi di dibattito 
        su questi temi in Italia. Ricordo fra gli altri: L. Balbo (a cura di), 
        Time to care - politiche del tempo e diritti quotidiani, Angeli, Milano 
        1987; L. Balbo, M. Bianchi (a cura di), Ricomposizioni - Il lavoro di 
        servizio nella società della crisi, Angeli, Milano, 1982; M. Bianchi, 
        I servizi sociali - Lavoro femminile, lavoro familiare, lavoro professionale, 
        De Donato, Bari 1981; G. Chiaretti (a cura di), Lavoro intellettuale, 
        lavoro per sè: doppia presenza, Angeli, Milano 1981. 
      (3) Di nuovo 
        il confronto fra la sfera domestica e quella produttiva ci offre una possibile 
        chiave di lettura per alcuni punti che sentiamo contraddittori se non 
        addirittura generativi di conflitto. La nozione di diritto richiama quella 
        pubblica di cittadinanza e sappiamo quanto difficile sia porre quest'ultima 
        in relazione a quella privata di cura. E' difficile in molti sensi operare 
        una precisa nozione di diritto per chi cura all'interno della sfera domestica: 
        ad esempio, quanti giorni all'anno si deve curare, si matura o no qualche 
        bonus per un tempo della vita successivo, diritto ad accedere a un servizio, 
        a un supporto per sè, per quante ore, ecc.  
        Non possiamo ritenere che tutte queste difficoltà e ambivalenze 
        si risolvano automaticamente in un ambito di contrattazione delle condizioni 
        di lavoro degli operatori. 
      (4) Va segnalato 
        che nella letteratura anglosassone l'identità di chi riceve cura 
        contribuisce a definire chi la dà. Carer è colui o colei 
        che offre supporti materiali e affettivi a una persona con una disabilità 
        temporanea o permanente o a un anziano non autosufficiente 
      (5) Su questo 
        punto si veda Marina Bianchi, op.cit., 1981, in particolare pp.21-22. 
        Inoltre Gillian Dalley, in Ideologies of Caring. Rethinking Community 
        and Collectivism (MacMillan, London 1988), commenta che le donne sono 
        considerate devianti se non care about (dimensione relazionale) tanto 
        quanto care for (dimensione materiale) per i loro figli. 
      (6) Anche 
        l'intenzionalità che si connette alle varie attività può 
        definirsi come ambito. Ad esempio, scomponendo le attività di cura 
        svolta dalla madre o moglie nell'ambito domestico - nella dimensione che 
        definiamo della riproduzione - e confrontiamo queste singole attività 
        con analoghe svolte nell'ambito del lavoro produttivo, notiamo come lo 
        stirare svolto in un negozio lavo-stiro perda la connotazione di lavoro 
        di cura che invece mantiene nel momento in cui si stira la biancheria 
        del proprio bambino perchè in quel gesto vi è intenzionalità 
        di cura e vicinanza affettiva. A un livello intermedio si colloca il permanere 
        della connotazione di lavoro di cura in determinate azioni, ad esempio 
        riordinare il letto del bambino da parte dell'educatrice del nido o dell'infermiera 
        professionale in ospedale, poichè permane una vicinanza affettiva, 
        anche se su una scala diversa da quella domestica. 
      (7) Su questo 
        punto, per quanto riferito in generale al 'lavoro sociale', si veda Paola 
        Piva, L'intervento organizzativo nei servizi sociosanitari, Nis, Roma 
        1993, in particolare pp.145-158. 
      
      
      
       
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        De-costructing Concept o f Care, in "Sociology", 27,2,1993 
         
        2 - Carol Thomas, "De-constructin Conceps of Care", Sociology, 
        Vol. 27, n.2, May 1993 
      3 - G. Badolato, 
        P. Collodi, Identità femminile e lavoro di cura, in: C. Arcidiacono 
        (a cura di) "Identità, genere, differenza", Angeli, Milano, 
        1992 
      4 - a questo 
        proposito vedi il contributo di F. Bimbi nel n. 2/95 di questa rivista. 
        Inoltre, a cura della stessa autrice e di G. Castellano, "Madri e 
        padri - transizioni dal patriarcato e cultura dei servizi", Angeli, 
        Milano, 1990  
        banca del tempo  
      5 - G. Colombo, 
        I voucher del tempo, in: L. Balbo (a cura di) "Tempi di vita", 
        Feltrinelli, Milano, 1991  
      6 - H. Graham 
        "Caring: A Labour of Love", cit. in C. Thomas, "De-constructin 
        Conceps of Care", Sociology, Vol. 27, n.2, May 1993  
      7 - Marina 
        Bianchi, op. cit. 1981. pag. 21-22, propone la triplice distinzione in 
        questi termini: "Il lavoro domestico comprende le mansioni ripetitive 
        e ricorrenti, di pulizia, manutenzione, preprazione dei pasti, ecc.: mansioni 
        ancora lontane dall'essere razionalizzate e tecnologizzate al livello 
        che lo sviluppo delle forse produttive potrebbe consentire... 
        Il lavoro di consumo comprende, oltre all'organizzazione degli acquisti, 
        il relativo lavoro di scelta e di trasporto, l'utilizzo dei servizi pubblici 
        e privati. Nello svolgere questo lavoro, l'autonomia delle donne è 
        soltanto apparente, vincolate come sono agli orari di negozi e uffici 
        pubblici, a quelli del lavoro del marito e della scuola dei figli. Le 
        difficoltà sono ovviamente maggiori per le donne che hanno a loro 
        volta delle rigidità di orari di lavoro. La donna è comunque 
        resposabilizzata del successo di questo lavoro di consumo, che consiste 
        nell'impiegare al meglio le risorse familiari di reddito e di tempo, traducendole 
        in pasti preparati, bisogni estetici e di tempo libero soddisfatti., comfort, 
        salute e benessere per tutti i familiari. Un compito impossibile da soddisfare 
        con le risorse esistenti per la maggioranza delle famiglie. 
        Il lavoro di rapporto: all'interno delle stesse mansioni di pulizia, di 
        consumo, ecc. le donne svolgono continuamente un "lavoro di rapporto" 
        nel tentativo di commisurare le risorse ai bisogni, di prevenire e soddisfare 
        i desideri dei figli e del marito. Curare chi è ammalato, consolare 
        dalle frustrazioni nella scuola e nel lavoro, rendere piacevole il tempo 
        passato insieme: quando è soltanto la famiglia il contesto in cui 
        questa molteplicità di bisogni possono trovare una risposta, i 
        rapporti diventano per la donna un lavoro, la coppia diventa una costrizione, 
        l'affettività è un dovere. Moltissime donne crollano sotto 
        il peso di queste aspettative, e della delusione dei loro desideri di 
        affetto e di  
        rapporto all'interno della famiglia: l'uso di tranquillanti, l'alcoolismo, 
        la malattia, ne sono spesso lo sbocco."  
      8 - B. Costantino 
        - "What is 'Emotional Labour'?", Dipartimento di Scienze Sociali, 
        Università di Torino, 1994 
      9 - U. Prokop 
        "Realtà e desiderio - L'ambivalenza femminile", Feltrinelli, 
        Milano, 1978 
      5 - M. Bianchi, 
        op. cit. Sul modo di produzione femminile, Ulrike Prokop in Realtà 
        e desiderio. L'ambivalenza femminile. Feltrinelli, Milano 1978, sottolinea 
        che un delle caratteristiche principali sta nella sua ambivalenza "Esso 
        è insieme più sviluppato e più progredito. Più 
        sviluppato, per la capacità di produzione di rapporti sociali, 
        perchè in esso gli individui sono percepiti come persone e non 
        solo come detentori di determinati ruoli sociali. E' invece arretrato 
        rispetto al modo di produzione capitalistico perchè l'accumulazione 
        del sapere e delle capacità non sono stati organizzati e socializzati: 
        in questo senso rappresenterebbero un 'livello inferiore' di socializzazione 
        dei rapporti umani". 
         
      Articolo 
        pubblicato su "Animazione sociale", n.1/1995  
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